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Ausilia Giordano
| In tondo, nel campo correvo
e il filo spinato lo spazio mi confinava.
D’impeto il mio moto si arrestava.
Perché correvo ad Auschwitz?
Perché fuggivo?
E quando il mio debole respiro
non più in gola mi si stringeva,
spedito riprendevo la mia corsa confidente.
Fuggire speranzoso di giovane birbante.
Volevo espugnare la fortezza dell’angoscia.
Cercavo un punto svincolato tra il filo spinato,
ma le punte taglienti mi creavano ferite
con dolore lancinante.
Lì, sotto l’ultimo filato di aguzze punte,
sul terreno individuare un varco.
Scavavo a nude mani e in alternanza,
con un’asta di legno
e con una scarpa alacremente.
Alcuni miei coetanei non ancor adolescenti,
furtivamente scorsi in lontananza,
portati via per “fare fuoco nel camino”, si diceva.
E lì indugiai in un freddo silenzio estenuante,
nel gelo e nel silenzio di morte
che tenace nell’aria aleggiava.
Io ancora scavavo più veloce e forte.
Nessuno mi cercò? Forse no.
Mia madre già da giorni più non mi chiamava,
e mio padre alla mia voce più non rispondeva.
Fuori sfilai rapido dal fosso mio riparo,
tra i rovi e la polvere e l’erba secca,
cauto e guardingo io mi rotolavo
e di nuovo in corsa, in un campo nuovo.
Veloce, per conquistare la mia libertà correvo.
Un lampo! Ero oltre il filo spinato!
I rovi intorno alle gambe mi si intricavano
e in mille punte la pelle mi fendevano.
Le pietre dalle punte acuminate
mi rendevano i nudi piedi sanguinanti.
Fuggivo per acquistare coraggio e salvezza.
Di là, in uno spazio nuovo ripresi a respirare.
Nel mio estenuante peregrinare
giunse forse il mio grido fino al cielo.
Un cuore generoso fu a frenare il mio errare.
Fu dunque per grazia e per mistero,
che son qui ora a narrare.  | 

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«Per mai dimenticare. Perché non accada mai più. Perché ciascun prigioniero possa ritrovare la propria libertà.» |
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